mercoledì, maggio 07, 2008

Jing ju: Bottomless cave

Anche se tornati a casa si potrebbe mangiare assieme sento che voglio stare un po' per conto mio e ripensare a quello che ho visto. Come se non potessi adesso volgere il mio pensiero altrove, come se temessi che provando a far altro qualche ricordo, qualche sensazione mi sfugga ma come se non sapessi già che non è facile descrivere a parole quello che ho visto e quello che ho provato: la sorpesa iniziale, il brivido durante lo spettacolo e il disappunto perché è durato troppo poco, finito troppo presto ce ne siamo anche andati subito senza lasciarmi la possibilità di stare lì ad applaudire fino a spellarmi le mani.

Sto parlando come annunciato precedentemente dell'opera di Pechino (京剧 jing ju, per gli amici), e certo il mio lavoro sarebbe molto più semplice se chi mi leggesse avesse anche visto quel film superlativo che è Addio mia concubina, che ruota appunto su tale soggetto. Ed è ripensando anche a quel film che ho trovato incredibile poter assistere al momento del trucco degli attori (foto gentilmente trafugata ad Elisabetta), sistemati in una sala a fianco del palcoscenico a truccarsi da soli con pennelli, ciprie e pomatine dai colori vistosi, ritrovavo i momenti del film nella realtà che stavo osservando, roba da contemplare in apnea. Ogni urletto, ogni brano cantato (fortunatamente mentre parlavano e cantavano a fianco c'era uno schermo luminoso con caratteri e traduzione in inglese), brillava per tecnica e potenza. L'opera (o il medley di opere, piuttosto) a cui abbiamo assistito era un concentrato di canti, danze, balletti e arti marziali davvero spettacolare, temendo forse che il pubblico straniero potesse annoiarsi la durata è stata tutt'altro che generosa, avrei voluto ancora godere della vista di quelle acrobazie e del trionfo di colori in movimento di ogni costume.
Sono davvero un ragazzo fortunato, ho pensato mentre più volte la bellezza dell'opera mi commuoveva.

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